Perché un partito che porta nel proprio nome il richiamo
alla sovranità popolare svilisce così gravemente un istituto fondamentale di
democrazia diretta come il referendum? Per una forza nata in risposta al crollo
della prima Repubblica, riecheggiare il Craxi che invitava gli italiani ad
andare al mare invece di votare non mi pare un bel traguardo”. Domanda e
osservazioni sono legittime, poste da Andrea Boraschi, responsabile della
campagna clima ed energia di Greenpeace, il primo ad accorgersi della presenza
del Partito democratico tra i soggetti politici favorevoli all’astensione per
il referendum del 17 aprile. In effetti, nella giornata di ieri, dentro e fuori
dal Pd di democratico c’è stato ben poco. Dentro, perché la decisione di
schierarsi per l’astensione non è stata discussa in assemblea né tantomeno era
prevista nell’ordine del giorno della direzione nazionale di lunedì prossimo
(“analisi della situazione economica, ratifica commissariamento Pd provinciale
di Caserta, varie ed eventuali” i punti all’ordine del giorno). Fuori, perché
per molti parlamentari dem istigare ad astenersi dal confronto elettorale, nato
poi dalla legittima richiesta di nove consigli regionali come previsto dalla
Costituzione (ne basterebbero cinque) è un atto “fortemente antidemocratico”.
Una cosa è certa: il referendum sulle trivelle sta spaccando
il Pd più di quanto non lo sia già. Fratture tra maggioranza e minoranza, tra
Roma e Regioni, tra elettori e rappresentanti. Ieri, per tutta la giornata,
nelle stanze di governo un po’ tutti chiedevano spiegazioni su quella parola,
“astensione”, segnata nell’area Par Condicio dell’Agcom: dai civatiani a
Sinistra Italiana, da Roberto Speranza ai parlamentari dem – passando per
Stumpo, Cuperlo e Gotor – da Legambiente ai Verdi e fino ai Cinque Stelle (che
hanno anche scritto al direttore editoriale Rai Verdelli per segnalare la
criticità dell’informazione sul referendum). Finalmente, un segno di vita nel
pomeriggio. A rispondere, i vicesegretari del partito Debora Serracchiani e
Lorenzo Guerini: quello sulle trivellazioni è un referendum “inutile”, la
decisione l’hanno presa loro “come vicesegretari”, e lunedì “sarà ratificata
durante la direzione”. Poi, il colpo basso della spesa, quei 300 milioni di
euro che si spenderanno per la consultazione e che sarebbero potuti essere
destinati ad “asili nido, a scuole, alla sicurezza, all’ambiente”. Ma che, è
stata la pronta risposta trasversale, si sarebbe potuto evitare di spendere con
un election day (ci vorrebbe un decreto legge ad hoc, aveva detto Alfano
durante un question time in Parlamento a febbraio) e che in tanti hanno chiesto
per settimane ricordando come, nel 2009, fossero state uniti i ballottaggi
delle amministrative al referendum in materia elettorale. “Per evitare i costi
del referendum, sarebbe bastato indirlo nella stessa data delle elezioni
amministrative”, ha detto il governatore della Puglia Michele Emiliano (Pd),
che nella sua replica ha sottolineato come le Regioni –sette su nove targate Pd
– avessero in origine provato a mediare più volte con il governo sul tema
trivellazioni, ricevendo come risposta una comunicazione del sottosegretario
Vicari: il governo semplicemente non voleva incontrarle. “Se il governo avesse
voluto discutere, avremmo potuto certamente evitare il referendum sin dall’inizio”.
Conferma del fatto che l’obiettivo è, prima di tutto, togliere potere
decisionale alle Regioni in tema ambientale. Come per gli inceneritori.
Tra le motivazioni di Guerini e Serracchiani, quella dei
presunti posti di lavoro che si perderebbero se il referendum dovesse abrogare
la legge dello Sblocca Italia, che estende le concessioni fino all’esaurimento
del giacimento. Una prima risposta era già arrivata dai comitati No Triv: la
prima concessione entro le 12 miglia scadrà tra almeno cinque anni e molte
hanno ancora diverse proroghe di cui godere (il referendum chiede che non siano
rinnovate alla loro scadenza). Emiliano è stato ancora più preciso. “Ho sentito
questa affermazione erronea anche dal Segretario nazionale del partito durante
una lezione alla scuola di formazione politica del Pd”, ha detto prima di
spiegare che, in caso di abrogazione, tornerebbe in vigore la norma precedente
(legge 9/91) che non ha mai determinato licenziamenti e che confermerebbe
l’iter secondo cui il permesso di estrazione degli idrocarburi dura trent’anni,
prorogabili per dieci anni e poi all'infinito di cinque anni in cinque anni
senza alcuna interruzione della attività estrattiva. “Un sistema con processi
di verifica e controllo migliori di quelli previsti nello Sblocca Italia.
Stasera non sono contento del mio partito e del panico in cui cade troppo
spesso nei casi in cui la coscienza si divide dalla verità”, spiega Emiliano. E
sul fabbisogno? Secondo i comitati per il sì, le riserve di petrolio presenti
nel mare italiano basterebbero a coprire solo 7 settimane di fabbisogno
energetico e quelle di gas appena 6 mesi.
Virginia Della Sala – Il Fatto Quotidiano, 18 marzo 2016 –
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